Beatles – Get Back di Peter Jackson

di Antonio Bacciocchi

Uno degli eventi più attesi degli ultimi anni, di cui si erano avute alcune interessanti anticipazioni ma che, contro ogni aspettativa, è riuscito ancora una volta, in modo tipicamente beatlesiano, a sorprendere e a cambiare la narrazione e la sostanza della “vera” storia dei Beatles.

Il regista Peter Jackson (al suo attivo pellicole come “Il Signore degli anelli”, “King Kong”, “Lo Hobbit”) ha selezionato tra 60 ore, girate da Michael Lindsay Hogg nel 1969, “riducendole” a sole otto (!), per confezionare uno dei docu film più particolari, nella sua unicità, della storia del rock.

Il film di Lindasy-Hogg, “Let it be”, era già uscito nel maggio 1970 (vincendo un Oscar per la colonna sonora), poco dopo lo scioglimento della band, mostrata in drammatica decadenza.

“Get Back” di Jackson cambia le carte in tavola e ci propone tutt’altra storia, con un gruppo in preda a cambiamenti e scontri personali ma ancora terribilmente vivo e creativo ma che, soprattutto, continua a volersi un sacco di bene.

Due puntualizzazioni sono necessarie: il film è pertinenza (quasi) esclusiva dei fan più sfegatati e profondi conoscitori dei Beatles. Solo loro sono in grado di apprezzare, sopportare, comprendere in pieno la lunghezza del film.
Per il resto del mondo le prove, gli scherzi, i dialoghi, i litigi, le improvvisazioni caotiche, le cover raffazzonate risulteranno insignificanti, noiose e inutili.
In seconda battuta, come si è sempre erroneamente creduto, non è rappresentata “la fine dei Beatles”, che, dopo queste riprese, resteranno insieme ancora per un altro anno, sfornando quello che è presumibilmente il loro capolavoro, “Abbey Road”. “Get back” è invece la ricostruzione del mese di lavoro della band che porterà, il 30 gennaio 1969, al famoso e breve concerto sul tetto della Apple Records, qui interamente documentato.

Si parte dal 2 gennaio 1969, quando Paul, John, George e Ringo si ritrovano in un enorme studio di Twickenham per preparare uno spettacolo, un rientro sulle scene, un ritorno alle origini (“Get back”) della band, dopo anni di voluta assenza dai palchi, una serie di capolavori discografici, l’ascesa nell’Olimpo della musica, arte, cultura, assurti a opera d’arte vivente.
Paul McCartney vuole che la band, dopo i sempre più numerosi contrasti degli ultimi tempi, si ricomponga per sfuggire alla forza centrifuga che sta proiettando ognuno versi altri progetti. Pensa ai Beatles che riprendano in mano gli strumenti e suonino come facevano agli esordi (sette anni prima, solo sette anni, durante i quali hanno cambiato il mondo della musica e non solo), per ritrovare spontaneità, freschezza, genuinità.
E che tutto ciò venga dettagliatamente filmato, dalle prove fino allo show finale. Che, anticipa il preveggente Paul, “tanto sarà il nostro ultimo concerto”.

Il progetto iniziale prevede di esibirsi a Sabrata, in Libia, nei resti del teatro romano. In poco tempo l’idea, pur suggestiva, viene cassata.
Si passerà a un concerto londinese a Regent’s Park, a Londra. Ma l’unico a volerlo è lui, agli altri non interessa più risalire su un palco.
Passano i giorni, le tensioni salgono, John sembra assente (con Yoko costantemente a fianco), George infastidito e incattivito, Ringo annoiato.
Paul cerca di stimolarli “Non siamo pensionati del rock”), prende le redini delle prove ma finisce sempre malamente, tra nervosismo (George gli si rivolge, durante un’accesa discussione, in modo sprezzante, “Non mi infastidisci Paul, ormai non mi infastidisci più”), tempo perso, musicisti annoiati.
Alla fine George si alza e lascia il gruppo. “Ci si vede in giro in qualche locale” dice.
La scena è incredibile, i tre sembrano non prendersela, pensano a sostituirlo con Eric Clapton, poi si lasciano andare all’isteria e alla depressione, con occhi lucidi e sconforto palpabile.

Lo convinceranno a ritornare e da lì la faccenda cambia radicalmente. Sono tutti più distesi, propositivi, emerge l’imponente figura artistica e creativa di Paul che compone, arrangia, crea in diretta capolavori immortali, rende geniali le bozze degli altri.
In mezzo gli scherzi, le battute, il caustico humor dei quattro che ritrovano unità e voglia di fare e stare insieme. Soprattutto quando si aggiunge Billy Preston, geniale tastierista (suonerà con Stones, Aretha Franklin, Ray Charles, Bob Dylan, Miles Davis, Elton John e mille altri) che passa a salutare i ragazzi (conosciuti ad Amburgo anni prima) e si ritrova di punto in bianco nella band. Osservare la sua faccia quando glielo propongono, così, sui due piedi, e quella dei quattro Beatles, subito entusiasti ad ascoltare quello che suona, è imperdibile.

La sublimazione dell’innocenza.

Ricordiamoci che Billy aveva 23 anni, i “quattro” andavano dai 25 ai 28. Anche se nel nostro immaginario ci appaiono adulti, immortali, saggi e onniscienti erano ancora ragazzi giovanissimi.
La sua presenza rivitalizza la band, nascono nuove canzoni. Nel film ne vediamo la prima scintilla, le progressive modifiche, i reciproci suggerimenti, i cambiamenti, in un lavoro corale, condiviso, in cui ognuno apporta il proprio contributo.
Fino ad avere sotto gli occhi “Let it be”, “The long and winding road”, “Two of us”, “Don’t let me down”, “Get Back” e le radici di successivi capolavori come “Something”, “All things must pass”, “Jealous guy”.

La band stringe i tempi, lo show, non ancora definito, si avvicina e alla fine decidono (ennesimo colpo di genio) di farlo sul tetto della Apple, nei cui studi si sono spostati.

Gli dei della musica assurgono al cielo, si avvicinano al divino.

Lasciando a terra l’incredibile fauna che li circonda anche durante le registrazioni (mogli, compagne, fonici, produttori, discografici, fotografi, cameramen, amici in visita, manager, personaggi di vario tipo).
E da lì, il 30 gennaio 1969, in un breve concerto di una manciata di brani, lanciano l’ultimo messaggio al mondo.
E’ il momento clou del film (e degli anni Sessanta).
La gente in strada non capisce, sono i Beatles, si sentono ma non si vedono, si crea affollamento, in tanti salgono sui tetti circostanti per avvicinarsi e guardarli insieme (inconsapevolmente) per l’ultima volta, la maggior parte apprezza, in pochi protestano perché la confusione creata “danneggia il commercio”.

I Beatles, a dispetto dei detrattori ignoranti, suonano benissimo, cantano divinamente, diventano un unicum di suono, immagine, creatività.

L’icona Beatles risplende in tutta la sua luminosità, solamente perché sono loro e perché nessun altro è mai stato e mai sarà più come Paul, John, George e Ringo insieme.

Gli anni Sessanta si chiudono e un’epoca irripetibile lascia spazio ad altro (meglio o peggio è pertinenza esclusiva del giudizio personale).
Il capolavoro dei Beatles è stato nello sciogliersi alla fine del decennio di cui sono stati simbolo.
Anche se, emerge chiaro dal film, non ne avevano alcuna intenzione all’epoca.
George confida a John e Yoko di voler fare un album solista con lo scopo di poter aver finalmente lo spazio che ormai meritava ma che nei Beatles non poteva avere, sottolineando che sarà anche un modo per rafforzare l’unità del gruppo.
Alcuni brani, che ritroveremo negli album solisti dei componenti, sono in predicato di entrare nel prossimo album della band.
Il motivo scatenante dello scioglimento emerge, inconsapevolmente, verso la fine del film, quando il manager Allen Klein si offre di gestire gli affari della band.
Paul vorrà il padre della moglie Linda, gli altri tre rifiuteranno e i Beatles finiranno (anche per questo).

E finalmente da queste immagini Yoko Ono, da sempre vituperata e considerata la causa della rottura, viene “scagionata”. E’ sempre appiccicata a John ma non interferisce mai, se ne sta in silenzio, legge, prende appunti, fa persino l’uncinetto.
Sostiene la fragilità di John, ne smussa le asperità del carattere. E’ costantemente presente ma con dolcezza, mai ingombrante o invasiva.

Uno dei momenti più esplosivi del film è quando arriva la polizia a sospendere il concerto sul tetto.
Sono due giovani ragazzi che sotto gli elmetti e il piglio autoritario nascondono un caschetto alla Beatles.
Ma devono mantenere fede al loro ruolo.
Imbarazzati, impacciati, probabilmente devastati dall’ingrato compito. Le telecamere li spiano nel loro straziante dilemma.
Un altro elogio all’innocenza.

Tutto intorno esplodono i colori, la naiveté e la freschezza dei protagonisti, l’abbigliamento del pubblico del concerto sul tetto, le pettinature, le minigonne, le giacche a tre bottoni, la sensazione di un mondo nuovo che stava per esplodere.

“Get Back” è un inimitabile ritratto di un’epoca tanto esaltante quanto finita.
E che i Beatles hanno rappresentato, tanto più in queste immagini, in cui li vediamo veri, presenti, “umani” in maniera imbarazzante.
E per questo ancora più vicini e immortali.

Antonio Bacciocchi

Scrittore, musicista, blogger. Ha militato come batterista in una ventina di gruppi (tra cui Not Moving, Link Quartet, Lilith), incidendo una cinquantina di dischi e suonando in tutta Italia, Europa e USA e aprendo per Clash, Iggy and the Stooges, Johnny Thunders, Manu Chao etc. Ha scritto una decina di libri tra cui "Uscito vivo dagli anni 80", "Mod Generations", "Paul Weller, L’uomo cangiante", "Rock n Goal", "Rock n Spor"t, Gil Scott-Heron Il Bob Dylan Nero" e "Ray Charles- Il genio senza tempo". Collabora con i mensili “Classic Rock”, "Vinile" e i quotidiani “Il Manifesto” e “Libertà”. E' tra i giurati del Premio Tenco e del Rockol Awards. Da sedici anni aggiorna quotidianamente il suo blog www.tonyface.blogspot.it dove parla di musica, cinema, culture varie, sport e con cui ha vinto il Premio Mei Musicletter del 2016 come miglior blog italiano. Collabora con Radiocoop dal 2003.

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito è protetto da reCAPTCHA, ed è soggetto alla Privacy Policy e ai Termini di utilizzo di Google.